Bruno Benfenati
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Nasce a Bologna nel 1940, da sempre appassionato all’arte, si concretizza negli anni ’80 come autodidatta. Frequenta lo studio del Prof. Francesco Giuliari, gia docente alla Accademia Cignaroli di Verona, dedicandosi all’analisi del rapporto tra l’uomo e l’oggetto, attraverso le varie tecniche , osservando i Grandi Maestri. Prediligendo il genere della “Natura silente”.
Nel 2009 viene premiato alla BIENNALE INTERNAZIONALE DI FIRENZE , per le opere su carta.
Dopo innumerevoli partecipazioni pubbliche e mostre personali, nelle varie Città italiane, selezionato dal Prof. Vittorio SGARBI per la 54° BIENNALE DI VENEZIA del 2011, partecipa alla Triennale internazionale di ROMA, inaugurata da ACHILLE BONITO OLIVA, inserito nella ”ESTETICA PARADISIACA” .Hanno scritto di lui autorevoli critici, ed è pubblicato da oltre 6 anni sul Catalogo dell’Arte Moderna Editrice Giorgio MONDADORI.



E' una forma dalla lettera equivoca, come spesso capita alle forme convenzionali, quella che definisce come natura morta un certo tipo di soggetto artistico, e con esso uno specifico genere. Non ci potrebbe essere niente di più vitale, per un artista, che consegnare ciò che rappresenta a un tempo bloccato e indefinito, come succede di regola nella natura morta, potenzialmente infinito, comunque molto più lungo di quanto non avrebbe concesso la natura reale. E' questo, del resto, un concetto di remota suggestione, riscontrabile anche nel mito greco-romano, quando due fra i più celebrati pittori dell'antichità, Zeusi e Parrasio, si sfidarono proprio a colpi di natura morta, il primo dipingendo un canestro di frutta, il secondo un drappo sopra una tavola: entrambi vennero ritenuti vincitori della natura, il primo per avere ingannato gli uccelli, che cercarono di mangiare la frutta, il secondo, più significativamente, l'essere umano, nella fattispecie Zeusi, che scambiò il drappo per vero.
Dipingere una natura morta diventa, perciò, un rito con il quale si consacra ogni volta la maggiore capacità riconosciuta all'arte, quella di poter vincere i limiti fisici delle cose come delle persone, come se potessero sopravvivere in eterno. Più appropriata, da questo punto di vista, la forma con cui la chiamano gli anglosassoni, stili life, vita fermata, ricalcando ciò che la terminologia più antica intendeva con soggetto "di ferma".
La nascita della natura morta moderna, perfettamente cosciente della sua autonomia espressiva, viene fatta risalire, come sappiamo, alla famosa Canestra ambrosiana di Caravaggio, in ideale ripresa di quella di Zeusi. E' un momento d'importanza decisiva, non solo perché, in nome di un valore fino a quel momento trascurato, la realtà, contrapposta alla finzione dell'ideale, si afferma la pariteticità di ogni soggetto artistico, senza più gerarchie che mettano obbligatoriamente l'historia al primo posto, contando solo il modo in cui si é capaci di renderlo in arte. Isolata, trattata separatamente, emancipata dalla necessità di significare in funzione dell'altro a cui l'opera era solita associarla, la natura morta rivela un'inedita valenza, quella di poter proiettare il rappresentato in una dimensione particolare di realtà amplificata, come in un suo eccesso che invece di avvicinarci ad essa, ci tiene a debita distanza, concentrandosi totalmente sull'essenza più intima delle cose, sulla loro ragione filosofica, invece che sulle semplici apparenze. E' l'intuizione del metafisico, del significato altro che attribuiamo al mondo così come viene rappresentato, poi ripreso e ampiamente sviluppato nel Novecento.
Di tutta questa storia alle spalle, le opere "di ferma" - in prevalenza nature morte, ma anche figure e ritratti - di Bruno Benfenati, assolutamente vive nel volersi dare come presenti, hanno appurata consapevolezza. C'é, in Benfenati, la volontà dichiarata di tenere aperto il filo con il passato artistico, inteso allo stesso modo come eredità ideale e materiale, pensiero e mestiere, ma non in un modo rigidamente passatista, per dirla col glossario futurista, come forma, quindi, di rifiuto di tutto ciò che abbia a che fare col presente, quasi che la nostra fosse per forza un'epoca più disgraziata delle precedenti.
Al contrario, Benfenati ha un'idea del passato che si confronta di necessità col presente, conscio del fatto che neanche la disciplina storica potrebbe ritenerlo un'entità assoluta, una certezza indeclinabile, esistendo non nella sua interezza originaria, ma per quanto di esso é sopravvisuto, e queste sopravvivenze, a loro volta, non sono interpretabili in un'unica maniera possibile, rimangono nella memoria condivisa per come i nostri contemporanei sono in grado di attualizzarle, di attribuire loro un significato in rapporto col tempo che vivono, potendo in tal modo sentirle ancora come proprie.
Si attualizza collettivamente, riconoscendosi in analoghe disposizioni interpretative, ma anche individualmente, ognuno fornendo una variante personale, con l'implicazione di un vissuto diretto, alla disposizione generale. Capita così anche nelle opere di Benfenati, che difficilmente potremmo immaginare più oggettive, sia perché si attengono scrupolosamente alla realtà effettiva di ciò che rappresentano, evitando al minimo le licenze di stile, sia per la canonicità dei soggetti, fatto salvo qualche motivo iconografico altrove più raro, di sapore gozzaniano (i fazzoletti ricamati e le tovagliette decorate a merletto, per esempio), così marcata da farci pensare che si voglia rientrare, più che nella casistica sterminata della natura morta, nel suo archetipo più riconoscibile (non una fra le tante, ma quella per eccellenza, così come una persona comune la intenderebbe). Eppure, anche in questa didascalicità di approccio che ambirebbe a non causare alcuna sorpresa in chi guarda, ci accorgiamo bene di come le fisse messinscene di Benfenati si avvalgano di un preciso regista alle spalle, volto a cogliere, nella riproduzione pittorica del prevedibile, predisposta come un personale processo prima di conoscenza, poi di graduale appropriamento del riprodotto, l'imprevedibilità che può scaturire dalla sua contemplazione, quando alle cose si finisce per domandare il segreto più remoto che si cela dietro la loro astanza, quello in grado di giustificare il senso primo del mondo.
C'é un ultimo stadio, il più cruciale, che, nel processo appena accennato, viene di seguito all'appropriamento: l'interiorizzazione, il dare, cioé, collocazione individuale a una genericità di soggetto che sarebbe altrimenti disorientante, come se le cose potessero fare a meno di noi, attribuendo uno spazio stabile al suo non-luogo, quello della nostra anima. E' operazione che Benfenati ci invita a fare dietro di lui, seguendo con fiducia la traccia indicata dalle sue opere, non ignorando, però, che per ognuno di noi vi potranno essere esiti anche diversi dai suoi. Questo, in fondo, é uno dei misteri dell'arte.
Segreteria dell'On. VITTORIO SGARBI
Dott. Alessandro Bertazzini
Dott.ssa Alice Ferraro